Cari amici di TranslationPot,
vogliamo iniziare il nuovo anno con il contributo di una nostra tirocinante, che ci racconta attraverso i suoi occhi il difficile approccio alla traduzione.
Ci teniamo a ringraziare Roberta per aver condiviso con noi la sua esperienza, che crediamo potrà essere di aiuto a tutti coloro che iniziano ora ad avvicinarsi al mondo della traduzione e che, proprio come lei, hanno intenzione di intraprendere la nostra amata professione.
A voi tutti auguriamo una buona lettura!
Tutto ha inizio con un sogno da inseguire ed un obiettivo da raggiungere: diventare traduttrice. La strada è lunga e piena di insidie, ma la volontà rende guerrieri.
I primi passi nell’apprendimento delle mie lingue straniere sono stati, ovviamente, apprendere le regole di base della grammatica e imparare a esprimere i concetti fondamentali. “Parlare” una lingua è, però, tutto un altro affare. Riuscire a comunicare pensieri in modo corretto dal punto di vista ortografico o grammaticale è sì fondamentale, ma avvicinarsi al modo di esprimersi tipico di un madrelingua credo sia la parte più importante dell’apprendimento per un traduttore. Tuttavia, quello che molti ignorano è che padroneggiare la lingua di studio è si importante, ma è piuttosto la conoscenza della propria lingua a determinare il successo di una traduzione. Può sembrare scontato, ma ho capito ben presto in questi mesi che non lo è affatto.
Nel corso dei miei studi ho sempre avuto un’idea incompleta, o forse, per meglio dire, vaga della traduzione. Questa riguardava soprattutto l’ambito della scrittura, rimanendo, quindi, legata a tutte le sue regole e a tutti i suoi schemi. Il traduttore doveva essere un mediatore, il cui compito principale era trasporre i concetti da una lingua all’altra, tenendo in conto tutte le differenze linguistiche, culturali, sociali, etc., ma cercando sempre di rimanere fuori dal testo.
In realtà, fin dal primo “incontro” con la traduzione, gran parte delle mie convinzioni sono state stravolte. Avevo già avuto modo, nel mio percorso universitario, di confrontarmi con piccoli testi da tradurre, ero quindi a conoscenza di alcune difficoltà che avrei incontrato intraprendendo questo cammino. Ero, inoltre, al corrente delle regole da seguire per poter tradurre un testo: leggere più volte il materiale su cui lavorare, analizzare gli obiettivi e ricercare i termini che più si avvicinassero al significato del testo di partenza. Ciò che non sapevo, però, riguarda il grande lavoro di interpretazione che c’è dietro la semplice trasposizione. Da questa esperienza di tirocinio ho imparato, infatti, fin da subito, che non basta “cercare il termine nel dizionario e inserire la forma corretta”, bisogna piuttosto dare un senso, o per meglio dire “il” senso, ad ogni piccola parola, bisogna scavare nel significato più profondo di ogni termine fino a quando non siamo certi di aver trovato quello più adatto, ossia quello al contempo più fedele all’idea del testo originale e più spontaneo e naturale agli occhi (o alle orecchie!) dell’utente finale.
E questo lavoro “certosino” deve essere effettuato per ogni minima parte del testo, toccando perfino la punteggiatura, se ce ne fosse bisogno.
Tradurre vuol dire, quindi, permettere all’utente finale di comprendere i concetti del testo di partenza, adattandoli alla cultura e agli schemi della lingua di arrivo. Per esempio, l’espressione inglese Good luck! non potrebbe mai essere tradotta in italiano con un semplice Buona fortuna! (perché nella nostra cultura pronunciare queste parole in un’occasione importante porta sfortuna!), diremmo piuttosto In bocca al lupo!
Il lavoro del traduttore è doppiamente complicato! Questi, infatti, non soltanto deve essere in grado di rendere comprensibile il testo nella lingua di arrivo, ma deve soprattutto nascondersi dietro l’autore originale. Questo credo sia l’obiettivo più difficile da raggiungere: il lettore deve avere l’illusione che il testo sia stato scritto nella propria lingua, la mano dello scrittore e del traduttore devono fondersi e diventare un solo corpo.
Ho capito, infine, che tradurre significa, in un certo senso, anche “dire la propria opinione”, ma in modo indiretto, ad esempio attraverso la scelta di alcuni termini piuttosto che di altri. Esistono mille modi per dire qualcosa, ognuna con mille sfumature diverse. E ritengo che il bello della traduzione sia proprio questo: non è mai UNA, ma ne esistono infinite ed ognuna porta una visione nuova e diversa dalle altre, pur restando tutte fedeli all’originale.
Quindi, in conclusione, posso solo dire, che il mio sogno sta diventando realtà e che, nonostante tutte le difficoltà, sono ben felice di essere entrata a far parte di questo mondo “tra diverse realtà”.